Screening prenatale non invasivo: ecco il test che analizza il DNA fetale per scoprire se ci sono problemi

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È di facile esecuzione, non invasivo ed altamente accurato: è il NIPT, Non Invasive Prenatal Test, il test di screening disponibile in Italia dal 2015 che analizza il DNA fetale presente nel sangue materno per valutare la probabilità che il feto sia affetto dalle principali anomalie cromosomiche fetali. Negli ultimi trent’anni, infatti, le tecniche di screening prenatale si sono affinate sempre di più: dalla stima del rischio calcolata in base all’età della donna,  alla quantificazione di marcatori biochimici, all’integrazione del dosaggio di proteine del sangue materno con parametri ecografici ed età materna, fino ad approdare al test prenatale non invasivo che si basa sull’analisi del DNA fetale libero presente nel circolo ematico materno. Più accurato dei test di screening tradizionali, il NIPT dà anche meno falsi positivi e riduce il rischio di un ricorso inutile alla diagnosi invasiva. Elemento importante questo, perché per sua natura la diagnosi invasiva comporta un rischio minimo di aborto legato alla procedura (le linee guida parlano di un rischio pari allo 0,5% per l’amniocentesi e al 2-3% per la villocentesi). I primi studi sull’analisi del DNA fetale libero nel sangue materno risalgono al 1997 e la sua applicazione in ambito clinico come “Test di screening Prenatale non Invasivo” (NIPT) per le principali trisomie cromosomiche risale al 2011. I principali vantaggi? La semplicità di esecuzione ‒ basta un semplice prelievo di sangue materno ‒ la non invasività e l’elevata accuratezza. 

Ma a chi è consigliato il NIPT su DNA fetale su sangue materno?

“Si tratta di un test non invasivo che può venir proposto come screening complementare alle indagini ecografiche del I trimestre – ha chiarito la dottoressa Laura Cardarelli, specialista in Genetica Medica del Gruppo Lifebrain, network di laboratori in grado di offrire servizi diagnostici integrati con elevati standard qualitativi – Il prelievo non comporta alcun rischio né per la mamma né per il bambino, per tale ragione il suo utilizzo può essere proposto a tutte le donne gravide con gravidanza in normale evoluzione. L’esecuzione di tali indagini in sostituzione dei test genetici effettuati su prelievo di villi coriali o di liquido amniotico non è tuttavia indicata nei casi di elevata probabilità di patologia fetale, che giustificano il ricorso a metodiche invasive per l’esecuzione di esami con valore diagnostico, in grado di confermare o escludere con precisione eventuali sospetti di anomalia fetale (e non solo di fornirne un rischio)”.

Come funziona. Durante la gestazione, frammenti di Dna fetale entrano nel circolo sanguigno materno in seguito alla “rottura” delle cellule placentari già a partire dalla quinta settimana di gestazione, ma solo a partire dalla decima settimana il cffDNA può essere isolato dal plasma materno in quantità sufficiente per eseguire il test, permettendo di escludere le più comuni alterazioni cromosomiche a carico del feto.“Gli screening prenatali non invasivi di DNA fetale su sangue materno per l’individuazione delle gravidanze a rischio di anomalia cromosomica – ha spiegato Cardarelli – hanno dimostrato sensibilità e specificità superiori a tutti i precedenti test di screening, in particolare per la trisomia 21 (Sindrome di Down). Per la loro accuratezza, oltre che per la non invasività e la semplicità di prelievo, i NIPT hanno rapidamente catturato una quota di mercato crescente, con riduzioni sostanziali del numero di villocentesi e di amniocentesi effettuate, suggerendo che medici e pazienti riconoscono in tali indagini un test di I livello proponibile per tutte le gravidanze che non evidenziano particolari fattori di rischio, quali ad esempio translucenza nucale aumentata, malformazioni fetali, familiarità per determinate condizioni genetiche”. Le linee guida nazionali (Ministero della Salute, 2015 e Società Italiana di Genetica Umana, SIGU, 2016) riportano che il test è al momento validato dal punto di vista scientifico per le principali anomalie cromosomiche: la trisomia 21 (o sindrome di Down), la trisomia 13 (o sindrome di Patau) e la trisomia 18 (o sindrome di Edwards). “Nel complesso, queste anomalie rendono conto del 50-70% delle aberrazioni cromosomiche che potrebbero essere presenti in un feto – ha aggiunto la specialista – Col diffondersi dei test, nuovi dati sono in fase di studio ed è verosimile che nel prossimo futuro ulteriori approfondimenti d’indagine, attualmente non consigliati dalle linee guida nazionali perché privi di validazioni cliniche significative, possano raggiungere i requisiti clinici previsti”.

Affidabilità del Test. I dati di letteratura scientifica e le linee guida del Ministero della Salute indicano che la sensibilità dei test NIPT, cioè la capacità di individuare le gravidanze con feto affetto, è del 99,3% per la trisomia 21, del 97,4% per la trisomia 18 e del 91,6% per la trisomia 13, con rispettivi falsi positivi dello 0,1%. Una sensibilità del 99,3%, quale quella della trisomia 21, significa che non tutti i feti affetti vengono riconosciuti; infatti, circa l’1% di essi non rientra tra i casi con esito di alto rischio. L’informazione fornita attraverso il test non è una certezza, ma una probabilità: infatti, il riscontro di alto rischio non significa necessariamente che il feto sia affetto ma che ve ne è un’elevata possibilità. Tale condizione va confermata tramite amniocentesi (o villocentesi): la percentuale di casi patologici confermata è espressa dal valore predittivo positivo (VPP). 

Il valore predittivo del test rende allora poco significativa la sua applicazione?

“Assolutamente no – assicura la Cardarelli – Rispetto agli altri test di screening, i test che analizzano il DNA fetale libero nel sangue materno hanno maggiore sensibilità e specificità e, di conseguenza, valore predittivo positivo e valore predittivo negativo più elevati. Ciò significa avere meno falsi negativi, con minor probabilità che nasca un bambino affetto da anomalie cromosomiche. Inoltre, significa anche avere meno falsi positivi e, di conseguenza, un minor rischio di sottoporsi a una procedura invasiva e dunque minor rischio di perdere un feto sano a causa della procedura stessa. Come già sottolineato, un risultato di un NIPT non ha validità diagnostica. In altre parole non stabilisce con certezza se il feto sia affetto o meno da una particolare anomalia, ma indica la probabilità che lo sia, con necessità di verifica per tutti i casi ad alto rischio mediante un’analisi diagnostica che richiede un prelievo invasivo”.

Assicurare un’adeguata consulenza. Per assicurare che la donna o la coppia faccia una scelta in modo consapevole, nel rispetto dell’autonomia delle scelte riproduttive femminili, è doveroso garantire un’adeguata consulenza: un consulto pre-test, per informare adeguatamente la donna/la coppia sulle proprietà e i limiti dei NIPT; una consulenza post-test in tutti i casi ad alto rischio di anomalie fetali”. Per le coppie la possibilità di consulto è oggi facilitata. I centri Lifebrain, ad esempio, offrono NIPT unitamente a una consulenza pre e post test fornita per via telematica. In questo modo, si garantisce sempre un consulto rendendolo fruibile per tutte le gestanti che non sono più obbligate a recarsi personalmente in centri medici universitari e strutture sanitarie che fino a poco tempo erano le uniche a erogare questo tipo di servizio.

 

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