Neonatologia: è allarme per la ‘Sindrome del bambino scosso’

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bimbo piangeI genitori che, esasperati dal pianto inconsolabile del proprio figlio neonato, cercano di scuoterlo, spesso ignorano quali possono essere le conseguenze gravissime del loro gesto, seppure dettato a volte da fragilità emotiva e stanchezza. A lanciare l’allarme sui rischi della cosiddetta “Sindrome del bambino scosso” è la Società italiana di neonatologia (Sin) che sottolinea come in Italia manchino dati certi su questo fenomeno: l’incidenza stimata è di 3 casi ogni 10.000 bambini con meno di un anno, “ma il dato potrebbe spaventosamente rappresentare solo la punta di un grande iceberg”.

Esperto spiega i rischi
“In molti studi si dimostra – afferma il presidente della Sin Mauro Stronati – come i genitori dichiarino di scuotere i loro figli solo per calmarli, inconsapevoli della gravità di un simile intervento”. Dalle ‘confessioni’ dei responsabili, emerge che di solito il bambino viene afferrato a livello del torace o delle braccia e scosso energicamente per 4-20 secondi. Si tratta in genere di bambini tra i 4 e i 6 mesi, “non solo perché necessitano di cure costanti che possono esasperare genitori fragili, ma anche perché il loro capo è pesante rispetto al corpo e i muscoli del collo ancora non sono in grado di sostenerlo”, spiega la Sin. “Anche se può sembrare un gesto banale, può provocare trauma cranico, edema cerebrale, emorragia retinica”. Le conseguenze immediate della ‘Shaken Baby Syndrome’ sono vomito, difficoltà di suzione, nei casi più gravi convulsioni, alterazioni della coscienza, arresto cardiorespiratorio. Quelle a lungo termine vanno dalla difficoltà di apprendimento alla cecità, da disturbi dell’udito a epilessia, fino alla morte. Secondo un recente studio condotto in Scozia, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Svizzera, l’incidenza arriva a 38 casi per 100.000 bambini. Il 30% muore e solo il 15% sopravvive senza esiti. Fattori di rischio sono famiglia mono-genitoriale, mamme molto giovani o con basso livello di istruzione, uso di alcool, disoccupazione, violenza familiare e povertà.

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