Spesa intelligente e salutare. Le App aiutano o confondono?

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Si stanno sempre più diffondendo applicazioni per smartphone che puntano ad orientare le scelte d’acquisto dei consumatori con valutazioni di tipo nutrizionale ed etico dei prodotti a scaffale. Ma nel tentativo di semplificare la spesa, anche queste app – così come l’uso improprio dei claim “senza” in etichetta – finiscono per fornire indicazioni fuorvianti e soluzioni semplicistiche che deresponsabilizzano il consumatore senza educarlo ad una corretta alimentazione. Come ben indicato dagli esperti, non esistono cibi buoni o cibi cattivi, quello che conta sono le quantità e la varietà degli alimenti che si portano in tavola garantendo una dieta bilanciata nel suo complesso. E’ necessario un approccio consapevole e guidato dal buonsenso, che una app non può certo sostituire.

A proposito di slogan, secondo l’Osservatorio Immagino GS1 Italy, il tanto pubblicizzato claim “senza olio di palma”, al secondo posto per rilevanza dopo il “senza conservanti” con una quota del 6,8% delle vendite a valore, sembra aver esaurito la sua spinta dopo aver trainato la crescita del paniere del “free from” negli anni passati. Il sell-out cresce ma a ritmi sempre più contenuti (+1,4% nel 2020, rispetto al +2,8% del 2019, al +7,4,% del 2018, +13,5 nel 2016). Il livello di penetrazione di questo claim nelle famiglie italiane resta piuttosto alto, pari al 33,5%. Gli esperti tuttavia concordano sul fatto che questo claim non abbia alcuna rilevanza dal punto di vista nutrizionale, poiché ciò che conta sono i valori nutrizionali del prodotto, anzi, può addirittura trasformarsi in un boomerang per i consumatori, indotti a preferire prodotti non necessariamente più light e a eccedere nei consumi. Lo stesso CREA nelle ultime Linee Guida per una Sana Alimentazione, ha tenuto a precisare che “quando scegliamo un prodotto che non ha olio di palma non significa che possiamo consumare quel prodotto senza alcuna limitazione.”

Ma attraverso quali criteri un prodotto finisce nella lista dei buoni o dei cattivi?

Prendiamo il caso di “Yuka”, approdata di recente anche in Italia. Attraverso la scansione dell’etichetta questa app valuta i prodotti con un punteggio da 0 a 100, basato su tre criteri – nutrizionale, presenza di additivi e certificazione bio, se presente.

La prima criticità è rappresentata dal fatto che il giudizio viene espresso su 100g di prodotto e non in base alla porzione di riferimento. Questo è un problema, perché l’impatto di un alimento sulla dieta non può essere valutato senza tener conto delle quantità realmente assunte, che variano da prodotto a prodotto e spesso sono molto inferiori ai 100g. Destano inoltre perplessità sia il plus attribuito alla certificazione “bio”, che di per sé non rappresenta necessariamente una garanzia di maggior salubrità, che i criteri di valutazione degli additivi alimentari, nonostante il loro impiego sia regolato da norme precise.

Sull’attendibilità di Yuka abbiamo chiesto un parere al Dott. Giorgio Donegani – Consigliere dell’Ordine dei tecnologi alimentari di Lombardia e Liguria ed esperto di nutrizione ed educazione alimentare – che ha osservato che: “effettivamente ci si imbatte in valutazioni avventate che inevitabilmente ne compromettono la credibilità, come ad esempio il responso fornito su alcuni biscotti, valutati in modo pessimo perché contenti lectina di soia, vanillina o bicarbonato, considerati genericamente additivi e quindi dannosi per la salute, per esempio il cioccolato fondente viene al 74% bocciato perché probabilmente contaminato da pesticidi, troppo ricco di grassi saturi e zucchero. I parametri presi in considerazione insomma lasciano quantomeno forti dubbi di attendibilità”.

Anche le app seguono la moda dei claim “senza”

Yuka offre agli utenti “premium” la possibilità di impostare le proprie “preferenze alimentari”. Nel menù figurano le opzioni “senza glutine” e “senza lattosio” in risposta a particolari esigenze di salute e “vegetariano” e “vegano” che soddisfano invece scelte etiche. Ma la prima preferenza suggerita è il “senza olio di palma”, che evidentemente non risponde né ad esigenze di salute (non trattandosi di un allergene), né di tipo nutrizionale (già soddisfatte dal rating basato sul contenuto di grassi saturi) né tantomeno ad esigenze di tipo etico e di sostenibilità, dal momento che non si fa alcuna distinzione tra olio di palma certificato sostenibile e olio di palma non sostenibile. Va detto che Yuka non è l’unica app a stigmatizzare la presenza di olio di palma, anche OpenFoodFacts, Oplà ed Edo, includono tra le variabili di ricerca la sua assenza.

Secondo Giorgio Donegani “Il ‘senza olio di palma’ tende semplicemente a cavalcare un trend di mercato che anche le nuove linee guida per la sana alimentazione del CREA hanno criticato. Evidentemente non viene incontro ad alcuna indicazione salutistica quanto piuttosto ad un claim diffuso ed espressione significativa della infondata campagna promossa contro l’olio di palma. È stato ampiamente dimostrato come in realtà il consumo di olio di palma e di grassi saturi in generale, al pari della maggior parte degli alimenti, costituisca una minaccia solo in presenza di un abuso. In conclusione, alla già discutibile attendibilità delle valutazioni, in questo caso si aggiunge anche l’incomprensibile adozione di claim non scientificamente supportati ma che semplicemente sono “di moda”.

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