Sindrome dell’intestino irritabile: colpisce 1 italiano su 10

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intestino Riguarda circa 1 italiano su 10, in maggioranza donne: è la sindrome dell’intestino irritabile o IBS (dall’inglese Irritable Bowel Syndrome), più comunemente conosciuta come “colite spastica”. Una condizione molto comune e debilitante che interessa circa il 10-20% della popolazione mondiale di cui si è parlato a Bologna in occasione dell’evento “Nuove prospettive per migliorare la gestione clinica del paziente con IBS“.

“In Italia riguarda circa l’11-12% delle persone, in particolare le donne (in rapporto di 3 a 1 rispetto agli uomini) e con un tasso più alto di prevalenza dai 20 ai 50 anni. Questo disturbo è caratterizzato da gonfiore o dolore addominale – afferma Giovanni Barbara, professore associato dell’Università di Bologna e Presidente della Società Europea di Neurogastroenterologia – associati all’alterazione della funzione intestinale come diarrea, stitichezza o una fastidiosa alternanza delle due condizioni. Tutti sintomi, quelli descritti, che contribuiscono a un costante senso di disagio e a un diffuso stato di ansia, con ricadute significative sulle attività quotidiane”.

Le cause
Tra le cause della sindrome dell’intestino irritabile lo stress gioca un ruolo importante, ma oggi sappiamo anche che non è l’unico fattore scatenante e la ricerca scientifica ha mosso passi importanti verso la conoscenza sempre più approfondita dei meccanismi alla base dei sintomi. “Si pensi ad esempio al ruolo del microbiota intestinale: miliardi di batteri che popolano il nostro intestino e che quando si alterano per infezioni, l’uso di antibiotici o una dieta sbagliata, producono gas, gonfiore e disturbi delle funzioni intestinali – precisa Enrico Corazziari, Professore Ordinario dell’Università Sapienza di Roma – Negli ultimi anni si è ipotizzato, infatti, un possibile legame tra i geni che controllano il sistema immunitario e il microbiota. Infine, non meno importante, in 1 paziente su 10 anche la gastroenterite, la classica influenza intestinale, dà il via allo sviluppo di IBS”.

La diagnosi e i costi
Il percorso del paziente, verso la diagnosi di sindrome dell’intestino irritabile, spesso può risultare lungo e resta la necessità di definire degli standard diagnostici specifici, poiché nella pratica clinica si procede con una serie di verifiche diagnostiche che possono condurre alla diagnosi di IBS attraverso l’esclusione di altre patologie del tratto gastrointestinale. La patologia ha inoltre un notevole impatto sulla qualità di vita dei pazienti (ansia, senso di inadeguatezza) e elevati costi sociali. Un recente studio europeo ha cercato di indagare l’impatto socio-economico della sindrome da intestino irritabile con stipsi (IBS-c) in 6 Paesi Europei (Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito). Dal focus sull’Italia emerge che: in media i costi sanitari del paziente con IBS-c sono 937 euro, in gran parte dovuti al costo delle ospedalizzazioni, simili a quelli riguardanti altre patologie come ipertensione, diabete e osteoartriti; il costo annuo a carico del paziente è di 485 euro, il 34% di tutti i costi diretti, una spesa significativa che il paziente deve sostenere per le terapie a causa del mancato rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale (Ssn).

Infine, costi indiretti per 339 euro annui, simili a quelli della broncopneumopatia cronica ostruttiva. “Si stima che un paziente con IBS associato a stipsi abbia un costo complessivo in media di circa 1.700 euro all’anno – dichiara Vincenzo Stanghellini, Professore Ordinario di medicina interna dell’Università di Bologna e Direttore della UO di Medicina Interna del Policlinico S. Orsola di Bologna – L’impatto è dovuto sia ai costi diretti, imputabili a diagnosi ritardate, ospedalizzazioni e inappropriatezza o mancanza di aderenza terapeutica, sia ai costi indiretti secondari come le condizioni di assenteismo dal posto di lavoro e di presentismo, caratterizzato dalla scarsa produttività lavorativa dei pazienti”.

Le novità del trattamento
Il medico di medicina generale è il primo a entrare in contatto con pazienti con IBS, che rappresentano circa il 10% delle visite totali del medico di base e circa il 50% delle visite dallo specialista. Allo stato attuale, molto spesso può verificarsi uno scollamento nel passaggio del paziente dal medico di medicina generale allo specialista, senza considerare le diffuse pratiche di automedicazione che spesso sono la prima scelta terapeutica del paziente con IBS e che perdurano anche per anni. In particolare, la sindrome dell’intestino irritabile con stipsi (IBS-c) è un sottotipo di IBS che può risultare ampiamente sotto-diagnosticata a causa della somiglianza con la stipsi cronica.

Un recente studio europeo ha rilevato che in Italia più del 75% dei pazienti con IBS-c prende un farmaco OTC (tra i più comuni, pre/probiotici, lassativi e preparati a base di fibre). Un comportamento terapeutico che potrebbe essere imputabile anche al fatto che in Italia le soluzioni su prescrizione medica non sono rimborsate, rappresentando dunque un costo a carico del paziente. “Nella cura è importante tener conto delle diverse caratteristiche di IBS, che ad esempio può comportare diarrea o stipsi, che richiedono un approccio terapeutico diverso – conclude il professor Barbara – Sono molte le novità in termini di possibilità terapeutiche con la disponibilità a livello mondiale e anche in Italia, di farmaci innovativi che curano l’intera sintomatologia. Tra questi spicca la linaclotide che combina un effetto analgesico sul dolore con un miglioramento della stipsi. Novità anche per i pazienti con diarrea sono previste a breve”.

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